Non castigare mai una strega, avventura bdsm

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plutello
view post Posted on 21/3/2013, 10:17




Vado a postare in questo forum, che mi sembra abbastanza vivace, un mio racconto di una certa lunghezza, poiché ho avuto già riscontri positivi su un altro forum.
La storia, che spero possiate gustarla anche se non dovesse incontrare le vostre preferenze sessuali, non ha la pretesa di suscitare stimoli erotici, ma l'intento è solo quello di utilizzare la dominazione erotica per raccontare un'avventura bdsm.
Esiste anche un secondo racconto che si pone come una continuazione. Se avrò anche qui qualche apprezzamento, posterò pure il secondo. Se invece vi avrò annoiato (a volte capita) esprimete pure le vostre critiche, e proverò a cambiare stile e direzione.
Un saluto a tutti, Plutello


NON CASTIGARE MAI UNA STREGA



In pensione! Finalmente in pensione!
Essere maestro per quarant’anni è chiedere troppo a un uomo e lui non ne poteva più. Da giovane era diventato maestro solo per necessità; ma ben altre erano allora le sue aspirazioni. A quell’epoca sognava di diventare un grande attore, o uno scienziato, o un pilota d’aerei… insomma, una persona importante. Chi più di lui aveva la stoffa per essere qualcuno?
Ma erano trascorsi gli anni e nulla dei suoi sogni s’era realizzato. I genitori, entrambi insegnanti, l’avevano obbligato, con minacce e ricatti, a frequentare l’Istituto magistrale, e così un giorno, né bello né brutto, era uscito dalla scuola con un diploma di maestro. Non era certo questo che avrebbe desiderato, ma tant’è: era un modo per uscire di casa e avere una vita indipendente. Forse avrebbe anche accettato con sufficiente rassegnazione l’insegnare ad alunni di scuola elementare, in attesa di trovare qualcosa di più adeguato alle sue aspirazioni, se non fosse stato che lui mal sopportava i bambini; li avrebbe voluti tutti educati e obbedienti, e queste virtù erano diventate estremamente rare già all’epoca. Così detestava il suo lavoro; era sempre nervoso e sfogava sugli alunni ogni giorno di più la sua delusione.
Adesso però, con il pensionamento, le cose sarebbero cambiate: aveva solo sessant’anni, era celibe, aveva da parte un po’ di soldi, e si sentiva giovane abbastanza per fare tutto ciò che aveva sempre desiderato, donne, viaggi, divertimenti. Queste erano le riflessioni che il vecchio maestro arzigogolava nella mente, aspettando che il semaforo diventasse verde.
Quel semaforo di piazza Verdi era un’indecenza. Bisognava attendere un tempo spropositato, soprattutto per chi, come lui, doveva svoltare a sinistra, in direzione della biblioteca.
Fu proprio in quel momento, mentre tamburellava nervosamente con le dita sul volante, che girando la testa vide una ragazza nella corsia di fianco alla sua. Era giovane e bella, non poteva avere più di venticinque anni, eppure lo stava guardando intensamente. Non era uno sguardo fugace e casuale. No, stava fissando proprio lui!. E gli sorrideva, o almeno così gli parve, perché quelle labbra leggerissimamente arcuate non lasciavano capire se fossero una piega naturale o un sorriso…
Il vecchio maestro (come detestava questa parola) sentì il suo cuore sussultare con violenza nel petto e s’immobilizzò, dimenticandosi persino di respirare. In un solo istante ebbe la certezza assoluta, un’improvvisa illuminazione, come un lampo che esplode nel cielo o un ricordo antico di colpo affiorato alla coscienza: era lei la donna che aveva atteso per tutta la vita! Era sicuramente lei! Era la donna chiusa da sempre nella gabbia dei suoi ideali segreti e che, perduta in qualche sogno, mai s’era affacciata alla realtà. Ah, se l’avesse incontrata prima! Questa sarebbe stata la donna che avrebbe realizzato ogni sua ambizione e per cui avrebbe fatto qualsiasi follia, per lei sarebbe diventato un grande uomo, oppure sarebbe anche rimasto un insignificante maestro per tutta la vita. Che importava tutto ciò se lei fosse stata al suo fianco?
Dal finestrino dell’auto non poteva vedere molto della ragazza, solo la testa, ma quel che vedeva era più che sufficiente a farlo tremare da capo a piedi: i capelli neri e lisci, che le cadevano sul viso a coprire un occhio, lasciando l’altro scoperto e luminoso, la carnagione chiarissima e la bocca appena curvata in un sorriso malizioso… Bellissima, tanto bella da dubitare che fosse realmente vera. La materializzazione stessa del Nirvana, un satori vivente.
Lei lo fissava intensamente con l’occhio scoperto, e lui sentiva il sangue nelle vene diventare come acido solforico. Il suo corpo ardeva del fuoco dell’inferno stesso…
Non doveva perderla! Questo fu il pensiero che come un fulmine gli attraversò la mente. Che importa se le loro età contavano più di trent’anni di differenza? Era la donna destinata a lui! Lui doveva averla! Doveva essere sua! SUA! Quella ragazza avrebbe rischiarato l’intera tetraggine della sua vita e lo avrebbe finalmente fatto assurgere al rango che sentiva di meritare.
Tutte le ambizioni frustrate in tanti anni di inutile insegnamento sarebbero state riscattate ed egli avrebbe smesso di sentirsi la nullità che si era sempre sentito. Già si vedeva passeggiare con la ragazza accanto, felice delle occhiate d’invidia degli uomini e dei pettegolezzi di disappunto delle loro donne.
Il semaforo s’illuminò con la freccia verde per le macchine che dovevano andare dritto. Il maestro percepì un vuoto turbinoso che gli scese improvvisamente nello stomaco. Perso nelle fantasticherie, aveva scordato di essere sulla strada.
“Accidenti! Semaforo bastardo! Non ora! Non ora!”
Scosse il volante con rabbia, inserì la retromarcia, ma l’auto che stava dietro era vicinissima, e lo stesso quella davanti. Non aveva spazio di manovra per lasciare la sua corsia. Intanto la colonna centrale prese ad avviarsi, e con essa l’utilitaria grigia.
“Non devo perderla! Dio santo, non ora che l’ho trovata!”
Le tempie gli pulsavano come i pistoni della sua auto. Cercò di farsi largo urtando la macchina davanti e poi quella dietro, con l’unico risultato di far scendere i due guidatori infuriati. Con gli occhi fissi davanti a sé, non udiva neppure le grida che gli davano del pazzo, vedeva solo l’auto della ragazza scivolare via e perdersi nel traffico della città. Di lei non era rimasto più nulla, solo il ricordo dell’ultimo fugace sguardo che gli aveva rivolto un attimo prima di partire. Come il gatto di Alice, pian piano svanì anche il suo dolcissimo ed enigmatico sorriso.

Con grande fatica il maestro uscì dallo stato di stupore in cui era caduto e a poté concentrarsi sui fogli della “constatazione amichevole”, che gli autisti delle due auto danneggiate gli porgevano con insistenza.
L’aveva perduta, come era stato possibile? Ma forse lei faceva lo stesso percorso sempre a quell’ora. Forse lavorava in qualche studio poco più avanti, oppure abitava lì vicino. C’era ancora speranza.
Firmò rapidamente i fogli, parcheggiò la macchina in una strada laterale e s’incamminò, deciso a esplorare tutti gli uffici dei dintorni. Non s’illudeva di trovare una qualsiasi traccia della ragazza, ma era meglio che aspettare senza far nulla.
Tornò a casa la sera, esausto per il grande camminare. Non aveva ottenuto alcun risultato, né l’aveva sperato, ma almeno lo sforzo fisico lo aveva aiutato a scaricare la tensione che quel volto gli aveva provocato. La notte dormì malissimo e la mattina si alzò con la testa che gli rintronava come una campana. Il sonno era stato agitato, ma privo di sogni. Avrebbe tanto desiderato sognare la bella ragazza, ma non c’era riuscito, così che lo sforzo di rivederne l’immagine gli aveva guastato tutto il riposo. Andò allo specchio e si guardò: era uno straccio, vecchio e brutto. Come poteva una tale ragazza aver provato interesse per lui? Eppure, da come l’aveva guardato c’era da supporre che… ma no, era solo una sua fantasia! Era giusto che la vista di un bel visino lo facesse palpitare come un’adolescente? Che idee s’era messo in testa?
Si lavò i denti con gesti nervosi, poi si vestì. Doveva uscire, doveva dimenticarla. Sarebbe andato alla stazione e avrebbe preso un biglietto per una gitarella solitaria in qualche villaggio dei dintorni. Che andasse tutto al diavolo: non poteva soffrire così.
Il maestro si recò alla stazione, ma non comprò alcun biglietto. Aveva cambiato idea. Avrebbe semplicemente gironzolato per la città. Tanto, per quel che aveva da fare… Un quarto d’ora dopo, “casualmente”, si ritrovò in piazza Verdi giusto all’ora in cui aveva visto la ragazza il giorno prima. Scrutò ansioso le auto che gli sfilavano davanti. Cercava l’auto grigia. O forse era verde? O azzurra? Ma perché la testa gli girava in una confusione tale da non ricordare più nemmeno ciò che spasimava di vedere?
Ancora una volta tornò a casa la sera stanco morto. Si buttò sul letto, affranto e chiedendosi ripetutamente che follia fosse quella che aveva invaso improvvisamente la sua vita.
Neppure quella notte sognò il suo… (non aveva una parola per definire né i suoi sentimenti, né il loro oggetto: amore, infatuazione, cotta, delirio? Chissà. Ma aveva poi importanza?). Di giorno gli bastava sfocare un poco lo sguardo per rivedere il viso di lei, ma di notte ogni visione beffardamente svaniva. S’era girato mille volte nel letto, e mille volte calciato il lenzuolo a destra e a sinistra, impaziente che venisse il mattino per tornare nella piazza e aspettare la sua auto grigia (o forse era verde? o forse azzurra?).
Attese e attese, per ore, senza mangiare né bere, senza neppure recarsi in qualche bar per urinare, nel timore che lei gli sfuggisse. Tornò a casa avvilito e senza più forze. Giunto alla porta del suo appartamento la vescica gli cedette e prima che potesse giungere al bagno s’era bagnato i pantaloni. Si lavò e poi si gettò esausto sul letto, ma era ben deciso di tornare in quella piazza l’indomani.
Passò un’intera settimana durante la quale aveva mangiato pochissimo e riposato ancor meno. Con il trascorrere dei giorni il desiderio di lei era divenuto un’ossessione che gli restava incomprensibile. Non capiva ciò che gli stava succedendo, ma percepiva che la sua vita, senza quel volto, quel sorriso e quell’unico occhio che era riuscito a vedere, non avrebbe più avuto significato.
Sette giorni di attesa. Sette giorni d’inferno, ma la settima notte finalmente la sognò.
Si vide in una stanza molto stretta con le pareti che si chiudevano secondo un angolo acuto e innaturale. Lui era nudo, inginocchiato su un ruvido pavimento di pietra. Non sapeva come era giunto in quel luogo e neppure che cosa dovesse fare. Gli sembrava di essere lì da tanto, tanto tempo, forse quindici anni, forse venti. A un tratto le pareti della stanza cominciarono a scurirsi e nel sogno il maestro si guardò intorno preoccupato. Pian piano si delineò un’ombra, scura e minacciosa, ma non ancora ben distinta. Rabbrividì, più per l’inquietudine di trovarsi lì, in quella stanza opprimente, che per il freddo; ma quando la figura cominciò a definirsi meglio, gli sfuggì un gemito e si gettò con la fronte al suolo. Era lei! La sua dea! (Ecco come doveva chiamarla! Ora lo sapeva.) Sulle pareti era comparso il volto della ragazza così come l’aveva vista nella sua auto, con un occhio destro nascosto dietro i capelli. Anzi, i volti erano due, esattamente identici e speculari. Uno che riempiva l’intera parete di destra e l’altro quella di sinistra. Due grandi volti che gli imponevano l’adorazione. E lui, a quell’inespresso comando di sottomissione, aveva prontamente risposto.
Nel sogno rimase lì, inginocchiato, nudo e con la fronte a terra per l’intera notte. Alle prime luci del mattino aprì gli occhi e gli sfuggì un’esclamazione. Non s’era svegliato nel suo letto! Era nudo e inginocchiato sul pavimento, rivolto verso un angolo della stanza, proprio come nel sogno! Guardò le pareti su cui erano proiettate le immagini di lei, ma adesso non c’era nulla oltre l’intonaco giallastro.
Si passò un mano sulla fronte sudata.
“Ma che mi sta succedendo? In nome di Dio, che mi succede?”

Fece per alzarsi, ma cadde al suolo. Le ginocchia gli facevano male a tal punto che non riusciva a mettersi in piedi. Se le massaggiò a lungo, tremando tutto per il freddo. Cercò una spiegazione logica: certamente aveva avuto un incubo e, come un sonnambulo, si era spogliato ed era andato a inginocchiarsi. Tuttavia non era convinto: una cosa del genere non gli era mai successa, e poi, egli sapeva di avere sempre avuto un perfetto controllo della sua mente, ma ora non ricordava nulla. Tutto ciò che era rimasto del suo sogno era solo il volto della ragazza e quell’occhio che lo trafiggeva da parte a parte.
Finalmente si rizzò e si diresse barcollante in bagno. Si guardò allo specchio: era pallido come un cadavere.
“Che mi succede?” si chiese ancora. Poi ricordò che aveva qualcosa da fare. Si vestì rapidamente e si diresse alla solita piazza, a scrutare con attenzione ogni auto che passava. Ormai non ricordava più neppure se quella della ragazza era grande o piccola.
Passò un’altra settimana. Ogni giorno aspettando in piazza Verdi e ogni mattino ritrovandosi inginocchiato contro un angolo della stanza. Tutto ciò avveniva ormai in modo automatico e quasi inconsapevole. Si preparava per andare a letto e la mattina si risvegliava in adorazione. Anche il recarsi in piazza Verdi avveniva come in modo distratto. Egli usciva di casa con altre idee, ma qualunque fosse la meta di quel giorno, la biblioteca, la stazione, il cinema o andare a trovare un amico, inevitabilmente si ritrovava lì, fermo nello stesso punto della piazza e non s’allontanava fino a sera inoltrata, quando ormai tutti gli uffici s’erano svuotati. La gente lo guardava incuriosita, ma poi si abituò alla presenza costante e inoffensiva del vecchio maestro e non vi prestò più molta attenzione.
Erano ormai passati quasi venti giorni dalla prima volta che aveva visto la giovane, quando successe un fatto nuovo e sconvolgente.
Era uscito di casa per andare alla piazza (ormai non cercava nemmeno più di provare a recarsi in un altro posto perché sapeva che le sue gambe non gli avrebbero ubbidito) e si era sistemato nella solita postazione. Improvvisamente cominciò a sudare. Era il mese di marzo e faceva ancora abbastanza freddo, ma lui si sentiva stranamente accaldato. Si tolse la giacca e la lasciò cadere a terra, ma non fu sufficiente. Adesso oltre al caldo, che percepiva opprimente, sentiva la pelle prudere in tutto il corpo. Si levò anche il gilè, senza rendersi conto che le sue braccia e le sue mani si muovevano indipendentemente dalla volontà. Comprendeva bene la stranezza della cosa, ma non poteva farci niente. Non era propriamente un movimento involontario, come un brivido o un sussulto, o qualcosa di più inquietante come il sonnambulismo di ogni notte. Le sue mani adesso stavano slacciando i bottoni della camicia sotto la spinta di un desiderio, ardente, grottesco e irresistibile, che lo guidava come la bacchetta di un direttore d’orchestra, e lo dirigeva imperiosamente verso qualcosa d’ignoto e di sconvolgente. E la sua volontà a tale desiderio non poteva far altro che sottomettersi e dargli soddisfazione.
Si levò la camicia e la gettò per terra, poi levò anche la maglietta e restò a torso nudo. La gente ferma al semaforo lo guardava incuriosita, ma quando lui cominciò a levarsi i pantaloni, cominciarono a ridere, a darsi gomitate e a scambiarsi commenti di scherno..
Il vecchio era imbarazzatissimo: lui, un maestro, un ex funzionario pubblico, un uomo che aveva sempre voluto l’ammirazione sociale, era adesso solo un oggetto di derisione. Avrebbe voluto fermare quella che comprendeva bene essere una pazzia, ma dentro di lui qualcosa di molto più forte gli imponeva di continuare. E continuò, apparentemente insensibile agli schiamazzi degli studenti che rincasavano dalla scuola e ai commenti di disapprovazione degli adulti, ma tremando tutto in cuor suo e pregando Dio di farlo morire all’istante.
Alla fine rimase completamente nudo nella piazza, esposto agli sguardi, alle risate e ai sollazzi di tutti. Un ragazzino gli lanciò contro una lattina di coca-cola, un altro andò a pizzicargli il sedere, mentre in un angolo le sue compagne di scuola ridevano sguaiatamente. Lui non si mosse neppure quando qualcuno gli gridò contro “Sporcaccione! Vergognati!”. Certo che si stava vergognando! E nessuno poteva capire quanto, ma il corpo non gli ubbidiva più. Non poteva né alzare un braccio né usare le gambe per fuggire via. Doveva restare immobile, con lo sguardo fisso in avanti, perché adesso non lo dominava più il desiderio, ma semplicemente e orrendamente la sua mente galleggiava in una specie di limbo incorporeo, completamente separato dalle sue membra, su cui non esercitava più alcun controllo. La sua mente era consapevole di dove si trovava e di che cosa stava facendo, così come lo era degli atteggiamenti delle persone intorno, ma non poteva dire neppure una parola e ancor meno muoversi. Il colmo della vergogna lo raggiunse quando il suo ventre, esposto al freddo, scaricò improvvisamente sulle gambe e sul marciapiede urina ed escrementi…
Restò lì, nudo nella piazza per un tempo che al maestro sembrò eterno. E chissà quanto sarebbe rimasto ancora lì se a un certo punto non avesse notato due poliziotti, certamente chiamati da qualcuno, apparire dall’altra parte della piazza e dirigersi a grandi passi verso di lui. A quella vista, che lo riempì di angoscia (e forse a causa di questa) il maestro riebbe improvvisamente il completo controllo di sé. Raccolse in fretta e furia i suoi vestiti e fuggì via, inseguito dagli schiamazzi della gente.
Fece appena in tempo a raggiungere la sua auto parcheggiata in una via laterale, salirci sopra e partire prima che i vigili svoltassero l’angolo e arrivassero a leggere il suo numero di targa.
Mentre guidava, ancora nudo e puzzolente, continuava a ripetersi con rabbia: “Pazzo! Pazzo! Pazzo!”.
Non tornò mai più in piazza Verdi.
Ogni notte il suo corpo agiva come per volere proprio ed eseguiva quello che era diventato il rito notturno: il maestro si alzava dal letto in stato di trance, si spogliava e andava a prostrarsi in un angolo della stanza, in adorazione di un’onirica e invisibile dea. Ogni mattina sentiva l’impulso irresistibile di uscire di casa e per recarsi in un luogo pubblico, diverso ogni volta, e lì denudarsi. Ogni sera, al primo calar del sole tornava a casa stanchissimo, riusciva a bere un poco di latte e poi si gettava sul letto, ben sapendo che non vi sarebbe rimasto a lungo: non appena le ombre della città si sarebbero fatte più scure, una remota volontà l’avrebbe costretto all’assurdo rito dell’adorazione notturna.
A poco a poco si convinse che tutto sarebbe finito il giorno che avesse incontrato nuovamente la ragazza, ma ciò non succedeva, nonostante ormai da molti giorni avesse attirato su di sé l’attenzione della città intera. Era un mese ormai che si mostrava nudo un po’ ovunque, davanti ai bar, alle scuole, all’uscita degli uffici e delle fabbriche… La polizia non era mai riuscita a prenderlo e, stranamente, nessuno era riuscito a segnare il numero di targa della sua auto (aveva imparato a vestirsi indossando soltanto uno dei suoi impermeabili, così che poteva spogliarsi in un attimo e rivestirsi durante la fuga altrettanto rapidamente). Quella forza, ch’egli non sentiva propria e che gli bloccava dall’interno tutti i muscoli, svaniva sempre al primo apparire dei poliziotti. Ormai anche i giornali parlavano del misterioso “nudo che corre”, ma non c’erano foto che ne testimoniassero la realtà. Nessuno riuscì a fissare sulla pellicola la sua immagine perché, per una qualche misteriosa ragione, le foto risultavano sempre a tal punto sfocate che non si riusciva a distinguere niente altro che macchie informi di colore.

Un giorno tutto questo finì repentinamente com’era iniziato. Il vecchio maestro, ormai quasi privo di forze, non era più in grado di camminare a lungo, e anche solo il breve tragitto dalla casa al lattaio dell’angolo lo stremava. Ma se era finita l’umiliazione pubblica, non era guarito dalla strana malattia che aveva preso (perché, ne era ormai convinto, la sua era una malattia che doveva aver avuto origine dalla ragazza). Adesso, chiuso nella sua stanza rimaneva per ore accucciato davanti allo specchio, tutto nudo. La posizione era molto scomoda, con le gambe piegate e le mani sulla testa. Ben presto le caviglie, le cosce e soprattutto la schiena presero a tormentarlo, tuttavia non poteva togliersi da quella posizione, poiché la solita forza misteriosa lo costringeva a restare immobile.
Anche qui al dolore s’aggiungeva quasi sempre l’umiliazione di defecare e urinare sul posto, senza poter andare in bagno a pulirsi. Alle sue narici risaliva il suo fetore e si sentiva sprofondare in un abisso forse ancor peggiore della nudità per le vie cittadine.
“Un coglione accucciato sopra il suo piscio e la sua merda, come ho fatto a ridurmi così?” si ripeteva il maestro per tutto il tempo. Ma a questa domanda non aveva risposta.

Rimase così, fisso per tre lunghi giorni e tre notti, con i muscoli delle gambe contratti allo spasimo e la schiena a pezzi, con l’ano pieno di escrementi secchi e il pene bruciante d’urina. Non poteva girarsi a vedere, ma era certo che dietro dovesse spiccare sulla parete il volto ironico della ragazza, con quell’occhio che sembrava non volerlo abbandonare mai e che per qualche via arcana sembrava il responsabile di tutto.

Passati i tre giorni, incredibilmente non accadde più nulla. Il maestro poté infine riposare senza che niente di abominevolmente stravagante o di orribilmente osceno venisse a torturarlo. Per tutto il tempo rimase sdraiato sul letto a pensare. Pensò alla pensione che non riusciva a godere, pensò alle notti trascorse in adorazione, pensò agli scherni che aveva ricevuto e, soprattutto, pensò alla ragazza. Tutto era partito di lì. Una semplice infatuazione si era trasformata in un delirio, un’ossessione che gli distruggeva l’anima e lo rendeva folle. Aveva la sensazione che qualcosa di orribile si fosse insinuato nella sua mente, poiché quelle umiliazioni pubbliche avevano il sapore di un castigo. Era come se dovesse scontare un peccato, ma non riusciva a stabilire quale. Lui era sempre stata una persona onesta, era andato in chiesa più spesso della maggior parte delle persone, era abbastanza gentile… Non capiva che cosa avesse da scontare, proprio non lo capiva. Doveva trattarsi di qualcosa d’altro, forse qualche strano chimismo del suo cervello che lo stava facendo impazzire. D’altra parte non è che tutti i pazzi diventino tali per una colpa…
Col trascorrere dei giorni sempre più si convinse che aveva bisogno di uno psichiatra. Ma quale? Non conosceva nessuno, ma anche l’avesse conosciuto, sarebbe mai riuscito ad arrivare al suo studio?
Quando sostava nudo nella strada, vedeva la gente passare e immancabilmente gli sembrava di riconoscere il volto della sua dea ora in questa ora in quella ragazza. Ciò contribuiva ad aumentare la sua pena, perché costretto all’immobilità non poteva seguirla, non poteva parlarle, non poteva fare nulla se non stare fermo a osservarla andare via. D’altra parte come avrebbe reagito se lui l’avesse fermata in quelle condizioni? Non s’era instupidito a tal punto da pensare che una ragazza avrebbe risposto con un dolce sorriso a un vecchio, tutto nudo e immerdato, che le diceva: “Buona sera signorina. La posso accompagnare a casa?”. Poi però comprese che i volti che vedeva erano solo illusioni, poiché gli capitò di riconoscere la sua dea in più persone contemporaneamente. Non c’era alcuna ragazza, e forse non era neppure mai esistita, c’era solo la sua pazzia.
Comunque fosse, dopo tre giorni anche l’impulso ad accucciarsi cessò e la notte seguente trascorse senza la solita estenuante adorazione. La mattina, dopo tanto tempo, il maestro si svegliò finalmente riposato nel suo letto. Quasi non ci credeva, si sentiva come uscito da un incubo terrificante, tirò un grande sospiro di sollievo e indugiò a lungo tra le coperte. Non osava alzarsi nel timore che da un momento all’altro il delirio ricominciasse, ma quando ci provò non percepì il solito impellente desiderio di uscire di casa. Non gli parve vero. Cominciò a sorridere e a ballare sulle gambe malferme. Era passato! Era passato! Finalmente libero!
Uscì di casa a tarda mattina per recarsi al supermercato. Comprò, come ogni persona normale, i viveri per la settimana e non gli parve vero. Sorrise alla cassiera, pagò e disse pure qualche spiritosaggine, poi uscì fischiettando dal negozio e si diresse a casa. Era quasi mezzogiorno e decise che per festeggiare il ritrovato equilibrio si sarebbe preparato un piatto di spaghetti alla puttanesca, un piatto di cui era molto goloso. Mise l’acqua a bollire, vi aggiunse il sale e la pasta, poi prese il grosso cucchiaio di legno e fece per immergerlo nella pentola, ma subito si fermò a osservarlo. Ne era certo, quel cucchiaio lui non l’aveva mai notato. Non ne aveva mai avuto uno così grosso e lungo. Alzò le spalle e gli sfuggì un risolino nervoso. Con tutto quello che gli era capitato non c’era da stupirsi se non riconosceva neppure gli oggetti di casa sua. Fece nuovamente per immergerlo nell’acqua bollente, quando il respiro cominciò a farsi affannoso il cuore nel petto prese ad accelerare i battiti. Gli parve che una presenza estranea, terribilmente ostile, stesse forzando le barriere della sua mente. “Dio mio, no! Non questo! Dio pietoso, ti scongiuro, liberami da questa malvagità, solo tu puoi farlo!”
Così implorò, ma Dio era distratto e non lo ascoltò. Il vecchio maestro sentì ancora più forte delle altre volte l’impulso a spogliarsi. Tanto impellente fu la sua smania di nudità che in un accesso di parossismo si strappò i vestiti, poi si piegò sporgendo in fuori il sedere. Afferrò il cucchiaio di legno e con un gesto ampio e forte lo calò su una natica.
Il suo braccio, mosso da una volontà non sua, si sollevò ancora, quindi si percosse nuovamente nello stesso punto, con tutte le forze di cui era capace. Il bruciore era intenso e ogni colpo gli strappava un gemito di dolore. Ma non poteva fermarsi, il potere arcano che lo costringeva all’autopunizione non lo avrebbe lasciato andare fino a che…
“Già” si chiese tra uno spasimo e l’altro “fino a quando?”
I colpi del cucchiaio di legno si seguirono sempre più rapidi e sempre più dolorosi. Il suo braccio, implacabile, continuava e continuava... Senza riposo né pietà. Le natiche s’erano arrossate come pomodori maturi, ma la sua mano non si fermò. Ancora e ancora. Giù colpi forti e sonori. Ora su una natica ora sull’altra.
Dopo mezz’ora sentì la carne del sedere farsi molle come una bistecca a lungo battuta dal macellaio col pestacarne, una carne martoriata e vibrante di fitte lancinanti. Il maestro era tutto sudato, e le gocce gli scendevano dal viso miste alle lacrime. Le natiche, ormai violacee, sanguinavano con grosse gocce brune, che scendevano dense lungo le sue gambe, per poi riunirsi sul pavimento. Gli girava la testa e non riusciva più a distinguere neppure quale parte gli dolesse. Gli pareva che a soffrire tali pene fosse l’intero suo corpo, l’intera stanza o forse l’intero mondo. Tra un colpo e l’altro balenavano immagini fugaci, ricordi lontani che affioravano alla sua mente troppo sbiaditi per essere riconoscibili. Colpi e colpi, dolore, straziante, umiliante, violento. Il vecchio maestro ebbe un conato di vomito, ma ciò non servì a fermare quel terribile cucchiaio di legno.
L’acqua sul fuoco si s’era quasi del tutto prosciugata e gli spaghetti cominciavano a bruciare. Il maestro aveva ormai perso ogni capacità di discernere e pensò che l’odore di brucio che aleggiava nella stanza fosse la carne stessa delle sue vecchie natiche, poiché il vero fuoco era là, dentro l’orrendo cucchiaio e sopra la sua pelle, un fuoco che divampava come le fiamme dell’inferno.
“Pietà” supplicò il maestro con un filo di voce, ma non c’era nessuno ad ascoltare, nessuno che potesse fermare quel braccio che non gli apparteneva più. “Pietà” sussurrò il maestro ansimante per lo sforzo. Con l’ultima energia rimastagli lanciò un urlo, quindi scoppiò in singhiozzi, tanto forti da coprire il rumore del cucchiaio.

La tortura continuò per tutta la notte e per l’intero giorno successivo. Il fumo degli spaghetti bruciati aveva riempito la stanza intera, ma il cucchiaio di legno ancora andava a martoriare la carne gonfia e sanguinante. Il maestro si sentiva svenire, ma non riuscì ad avere neppure questo sollievo.
“Basta! Per pietà! Perdono! Perdono!”, avrebbe voluto gridare, ma queste suppliche poteva solo pensarle, perché in bocca la lingua gli era divenuta gonfia e dura come il cuoio per l’arsura. E poi, a chi dirigerle? Con un barlume di coscienza si rese conto che qualcosa stava cambiando intorno a lui. Una piccola ombra scura s’era disegnata sulla parete. Non la vedeva bene a causa del fumo, ma appena riuscì a mettere a fuoco l’immagine vi riconobbe il volto della ragazza.
Con un grande sforzo le labbra screpolate riuscirono a balbettare parole senza suono: “Tu… tu mi stai facendo questo… Io lo so… Ma perché? Dio mio, perché?”
Non ebbe alcuna risposta né l’attendeva veramente, ma il colpo successivo coincise con l’apparizione di un altro piccolo volto sulla parete. Poi ancora e ancora. A ogni colpo si formava sulla parete il volto ormai ben noto, con un solo occhio visibile e il sorriso enigmatico, ma di dimensioni piccole come una mano.
I colpi si succedettero ad altri colpi e le pareti della stanza si riempirono a poco a poco di piccoli volti. Che cosa sarebbe successo alla fine?
Il maestro non lo seppe, perché quando ormai erano rimasti sulla parete pochissimi spazi, la resistenza del suo corpo infine crollò, come un vecchio ponte sottoposto a un carico spropositato. Il maestro vide per un attimo le centinaia di volti ruotare intorno a lui, poi perse conoscenza.

***
Un muro, una finestra, al di là un cielo ostile con nuvole di piombo.
Davanti ai suoi occhi le nuvole si accavallavano come onde di un mare sbagliato, e null’altro gli era dato scorgere se non quel grigiore senza fine. Dove si trovava? Come era arrivato lì? Cercò di girare la testa, scoprì con raccapriccio che non poteva farlo. Era nudo, ma non era legato, né alcun impedimento esterno bloccava la sua testa, soltanto i muscoli del collo non rispondevano ai suoi comandi; d’altronde, come ebbe modo di verificare molto presto, non aveva il controllo di alcun altro muscolo. Tutto quello che poteva fare era muovere su e giù le palpebre, per il resto il suo corpo era come morto. Tuttavia la sensibilità era rimasta integra, e dalle sensazioni che gli giungevano dalla schiena poteva capire che era seduto su una sedia. Gli era impossibile ruotare gli occhi per vedere in che luogo si trovasse, anche se dalla presenza di una finestra poteva dedurre di essere in una stanza non sua. Doveva trovarsi nel piano alto di un palazzo, o in una casa sopra una collina, poiché non vedeva né case né strade, solo la cappa opprimente del cielo.
A un tratto percepì il leggerissimo cigolio di una porta e un soffio d’aria fresca dietro la schiena. Qualcuno stava entrando nella stanza. Subito avvertì una sorta di onda estremamente potente e maligna invadergli il cervello fino a sommergerne la coscienza. Forse il suo corpo si coprì di brividi o forse no, non avrebbe saputo dire, ma si rese consapevole di un freddo tombale che gli sfiorò la pelle nuda del collo e cominciò a scendere lentamente lungo il petto e la schiena.
Preso dal panico il maestro cercò disperatamente di alzarsi, di parlare, di fuggire via…
- È inutile che ti sforzi - disse una voce giovane e armoniosa. Poi continuò sempre con lo stesso tono soave: - Sei in mio potere, adesso, e non potrai più sfuggire. D’altra parte è questo che desideravi, non è vero?
Colei che aveva parlato si mosse e venne a fermarsi tra lui e la finestra.
Il maestro non si stupì affatto di vedere la figura della ragazza incontrata in piazza Verdi. Non si stupì e neppure ebbe il tempo di chiedersi che cosa ci facesse lei in quel luogo. L’unica cosa che sentì fu il cuore battere forte nel petto e la gola stringersi in un morso.
La ragazza sorrise e disse:
- Vedo che non comprendi. Ti dibatti nella tua paura e la mente non ti ubbidisce più. Eppure tu mi conosci e io conosco te, da tanto, tanto tempo. Solo che quel tempo che tu calcoli in ore e giorni, in mesi e anni, qui non è nulla. L’orologio sul comodino di casa tua scandisce secondi incommensurabili con i secondi scanditi qui.
Il maestro era sempre più confuso, sbatté violentemente le palpebre, voleva parlare, chiedere, urlare la sua disperazione. Ma altro non gli era possibile che quel gesto puerile e interamente inutile.
La ragazza riprese a parlare con la sua voce dolcissima:
- Abbandonati. Lascia che le cose siano, non sforzarti di capire. Io sono dentro di te. Io sono la padrona assoluta della tua mente, devi arrenderti a questo. Inutile cercare il tuo mondo, ecco che cos’è il tuo mondo…
A quelle parole un turbinio di voci roteò nel cervello del vecchio, erano grida, sussurri, bestemmie e imprecazioni, voci di vecchi e di giovani, di uomini e donne, in una cacofonia infernale. E ogni voce gli risuonava forte e dolorosa, sconosciuta e nello stesso tempo non del tutto estranea. Ogni parola e ogni suono cadevano nel suo cervello come miriadi di meteore incandescenti.
- Basta! Basta! - gridò il vecchio. Ma in mezzo al tutto quella baraonda si levò una voce lieve, eppure più forte di ogni cosa, e all’istante impose il silenzio in tutto il luogo, che poi luogo non era. Nell’assoluto silenzio, la voce recitò:
“Il mio nome è Elisheva. Io sono la regina del lato tenebroso di ogni uomo. Io sono il potere invisibile del dominio perfetto.” Poi la voce espressa nel cervello dell’uomo si rinforzò con il corrispondente sonoro nella stanza, come se una fosse eco dell’altra. - Tu, vecchio maestro, hai perduto il tuo corpo eterico. Esso giace ai miei, piedi e per suo mezzo io ho assunto l’intero possesso della tua insignificante persona. Ascolta…
- Soffri! - esclamò all’unisono la voce interiore e quella esteriore.
Nel preciso istante in questa parola fu pronunciata fitte lancinanti saettarono come frustate in tutto il corpo del vecchio. Lui restò perfettamente immobile a vedersi, ma dentro la mente urlava e piangeva sotto la tortura di cento pugnali che lo straziavano.
Poi la voce disse: - Gioisci! - e una felicità ineffabile invase l’animo del vecchio, come se il paradiso stesso si fosse aperto per lui.
La voce disse: - Adorami! - e lui si sentì pieno d’amore per la ragazza che gli stava di fronte. Una venerazione che gli riempì gli occhi di lacrime.
In un gesto complicato la ragazza strofinò alcune dita della mano sinistra su quelle di destra, e via via il maestro sentì che il corpo stava riprendendo la capacità di muoversi. Nello stesso tempo l’assalì un desiderio incontrollabile di sottomissione e di umiliazione. Si alzò dalla sedia e si gettò ai piedi di Elisheva, quindi si mise a leccarle le scarpe, sussurrando: - Mia regina, mia padrona, mia dea. Grazie di concedere a questo inutile servo l’onore di pulire con la sua lingua la suola delle tue scarpe.
Dopo un po’ Elisheva disse: -Basta!
Di nuovo eseguì lo strofinamento delle mani e lui andò a risedersi sulla sedia, immobile come una statua.
- Come hai visto, io comando il tuo corpo e il tuo spirito - disse la ragazza. - Posso dargli il movimento, oppure toglierlo, posso creare in te i sentimenti più ardenti, i piaceri più intensi e i dolori più strazianti. Tu ora sei meno di uno schiavo, tu sei la mia marionetta di carne.
Elisheva scostò un poco e solo per un attimo i capelli mostrando l’altro occhio, fino a quel momento nascosto. Una luce sinistra e nello stesso tempo incantevole baluginava nell’iride.
- Desiderami! - comandò infine.
All’istante un ardente desiderio di lei sopraffece il vecchio maestro. Una libidine assoluta, mille volte più intensa di quella sperimentata quand’era giovane. Un desiderio di sesso sfrenato che aveva un unico contenuto: il corpo della ragazza. Tremiti e sussulti lo scuotevano tutto e pensava che non poteva esserci al mondo una bramosia più devastante di quella. Ma s’ingannava ed ella lo sapeva.
Sfilò un piedino dalla scarpa e lo strofinò delicatamente sulla mano del vecchio. Quel contatto di pelle contro pelle esplose nella testa del maestro come un vulcano. Nella mente egli gridava e strepitava, ora supplicando, ora insultando: - Mia divina concediti a me! Vieni, ti voglio! Vieni dolcissima dea! Vieni puttana maledetta! Ti voglio! TI VOGLIO! Perdono! Pietà di me! Vieni… vieni.. vie…!
La ragazza parlò, mentre la brama del maestro s’acquietava, come il vento della bufera che, per qualche strano meccanismo, talvolta cala all’improvviso per riprendere poi più forte di prima.
- Vedo il tuo membro gonfio e dritto come quello di un giovane arrappato! - disse ridendo. - Ma non ci sarà alcuna soddisfazione per lui che io non voglia. Tutto il tuo corpo è diventato come un grande pene, che non puoi controllare e il cui piacere è nelle mani di questa femmina che ti sta davanti.
Elisheva atteggiò le labbra a un sorriso sensuale, poi continuò con voce suadente: - Mio piccolo schiavo, avrei potuto punirti con le sofferenze più atroci, avrei potuto lasciarti immobile su quella sedia fino alla fine dei tuoi giorni, tormentato dalle più orrende malattie, avrei potuto rendere il tuo corpo cibo per le creature del buio, vermi e scarafaggi che entravano in ogni tuo orifizio per divorarti dall’interno...
L’orrore del contenuto contrastava la dolcezza della voce, e il maestro sentiva nuovamente crescere in sé il vento ardente della libidine.
- Potevo divertirmi a creare per te mille modi per soffrire, ma ho scelto quello più adatto a un’anima insensibile come la tua. Sei condannato alla più incontrollabile passione verso di me, mi desidererai allo spasimo, il tuo pene arderà per me, ma mai più la tua pelle toccherà la mia. Hai provato l’inesprimibile dolcezza del mio piede, ora resterai nel suo desiderio per tutta la vita. Una brama insoddisfatta che crescerà dentro di te ogni giorno di più. Tu mi servirai, affronterai fatiche e pericoli, ti umilierai davanti a me e ai tuoi simili in ogni modo, sarai disprezzato, deriso, accetterai di essere da me frustato, bruciato, ti farò strappare la carne dal morso dei miei cani… tutto sopporterai, nella perenne e vana speranza di potermi un giorno baciare i piedi. Nemmeno il tuo nome ti apparterrà. Tu sarai Tekoki, così ti chiamerò io e a questo nome ubbidirai.
La ragazza strofinò ancora le mani e il maestro sentì che gli veniva restituito il controllo del corpo. Guardò la giovane donna con occhi colmi di desiderio, poi si le si prostrò davanti. Voleva dire qualcosa, ma la voce gli uscì in un sussurro: - Perché io? Perché tutto questo?
La ragazza non rispose, ma scoppiò a ridere in una risata di scherno. Poi estrasse di tasca un cartoncino logoro e disse solo: - Ecco, Tekoki, interroga questa immagine - quindi lasciò il vecchio solo nella stanza. Egli lo raccolse: era una vecchia fotografia. Vi era rappresentata un’aula scolastica, con la lavagna e una bambina seduta di spalle su una sedia. C’era un grafito sbiadito sulla spalliera, ma era leggibile: “SEDIA DEL SOMARO”.
Il vecchio sbiancò in viso e un sudore gelido prese a colargli lungo le tempie. Ricordò benissimo che quelle parole: le aveva scritte la sua mano tanto tempo fa. Era stato lui a inventare quel castigo umiliante per punire i bambini disubbidienti, quelli che non prestavano attenzione alla lezione, o che sbagliavano i compiti. Quando s’inquietava, e succedeva molto spesso, prendeva per un orecchio il bimbo e lo costringeva a sedere sulla sedia del somaro, poi cominciava a dire parole di scherno, incitando gli altri bambini a deriderlo. Tutto ciò lo ricordava fin troppo bene, e altrettanto bene ricordava le altre punizioni abituali: come lo stare in ginocchio per tutta la mattina, o ricevere davanti a tutti trenta colpi di bacchetta sul sedere nudo…
A un tratto tutto gli fu chiaro: in queste settimane lui aveva sofferto le punizioni che aveva inflitto da giovane ai suoi alunni: la vergogna pubblica, l’immobilità, i colpi sul sedere…
Guardò ancora la foto e impallidì nuovamente, perché aveva riconosciuto la bambina della foto. La stessa che ora dominava la sua vita. I ricordi presero a scorrere, nitidi e impietosi.
Quel giorno aveva un umore particolarmente nero e irascibile e aveva già punito diversi alunni con i colpi di bacchetta sulla schiena e sulle mani, quando notò che un’alunna non indossava il grembiule. Era una bambina strana quella, l’aveva capito subito la prima volta che era giunta a scuola. Pallidissima, non giocava mai con nessuno e durante l’intervallo restava seduta in disparte a guardare il cielo. Il maestro non aveva mai conosciuto i suoi genitori né pareva che qualcuno sapesse dove abitava.
Lui la detestava con tutte le sue forze perché la bimba non aveva mai mostrato verso il suo insegnante un minimo atteggiamento di devozione e di rispetto. Pertanto, sostenuto anche dall’assenza apparente di genitori pronti a proteggerla, la puniva spesso, più spesso degli altri bambini..
Ricordò bene quel giorno, quando lui le aveva gridato contro: “Come osi presentarti a scuola senza il grembiule!”.
Le aveva puntato minacciosamente il dito contro, ma lei, per nulla impressionata, aveva risposto con insolenza: “Era sporco”.
L’aveva detto in un tono del tutto neutro, ma nel parlare aveva voltato il viso e aveva fissato intensamente il maestro con un occhio solo, trasmettendogli un tale disprezzo e disgusto per la sua persona, come nessun altro aveva mai osato fare. Il vecchio maestro ricordò che aveva afferrato la bambina per una treccia e l’aveva trascinata fuori del suo banco. Poi, sempre strattonandola, l’aveva costretta a sedere sulla sedia del somaro. La bambina non aveva detto nulla per tutto il tempo e questo aveva fatto infuriare ancor di più il maestro. Così aveva estratto dalla cattedra la vecchia polaroid che teneva a scuola e le aveva scattato una fotografia. Dopo pochi secondi la foto si fu sviluppata e allora lui gliel’aveva lanciata contro sibilando: - Ecco. Tieni questa foto per ricordo. Rammenterai per sempre quale piccola e insolente nullità sei!
La bambina aveva raccolto la foto e, senza neppure un cenno di disappunto, se l’era messa in tasca.
Quella la foto maledetta era ora tornata per il suo tormento. Il vecchio maestro si prese la testa le mani sconsolato, ma un altro sentimento mille volte più forte cominciò a farsi strada nella sua mente, soffocando al suo passaggio ogni residuo della personalità. Venne assalito da un senso di vuoto profondo. Erano trascorsi solo pochi minuti da quando la sua ex alunna era uscita dalla stanza, che già la sua assenza lo gettava nella più nera angoscia. Cielo quanto ora quella bimba gli mancava! Il desiderio struggente di rivederla era come una valanga che cresceva e cresceva a ogni respiro. Cominciò a smaniare e corse alla porta. Era chiusa.
- Mia signora! - si mise a gridare tempestando il legno di pugni. - Mia padrona! Vieni da me, ti supplico! Vieni dal tuo schiavo! Il tuo schiavo ti ama, ti desidera! Puniscilo, fallo soffrire, ma ti prego, non lasciarlo solo!
Poi si gettò al suolo e pianse con lacrime e forti strepiti, strinse il pene e lo agitò nell’aria come una bandiera.
- Vieni dal tuo schiavo! Mia padrona! Vieni!
Supplicò mille volte con le parole più strazianti affinché lei venisse da lui. Si rotolò per terra e batté più volte la fronte al suolo, preso da una disperazione senza fine. Ma lei non venne.
Si mise in ginocchio con le mani giunte, pregando Dio che lo liberasse da quel tormento.
Poi il pensiero tornò alla sua ex alunna. La sua immagine di bambina e quella di giovane donna si confondevano nella sua mente, ma sopra ogni cosa aleggiava tormentoso il desiderio e invadeva ogni cellula del suo corpo. Il pensiero di lei gli faceva rizzare il membro, e restò così, con il pene duro e i testicoli doloranti, per molte ore, attendendo il ritorno della sua padrona.
Si sentiva impazzire dal dolore e dalla bramosia, ed egli ben capiva che non ci sarebbe mai stato per lui modo di liberarsi da quell’ossessione.
S’avvicinò alla finestra e lanciò un terribile urlo dal fondo della gola al cielo grigio e indifferente.
S’accasciò quindi disperato al suolo, poi, a un tratto, gli sorse una nuova speranza: forse un’eiaculazione avrebbe mitigato i suoi tormenti.
Prese il pene in mano e cominciò a scrollarlo, ma pian piano le dita gli si arcuarono in un movimento involontario. Le sue unghie artigliarono il membro duro come un sasso e, mentre con una mano lo teneva fermo, con l’altra lo graffiò tutto fino a straziarlo.
L’orgasmo non venne. Alla fine, esausto e senza aver trovato alcun sollievo, afferrò il pene sanguinante e con esso scrisse sulla parete:

NON CASTIGARE MAI UNA STREGA!

Dall’altra parte della porta gli giunse una forte risata, divertita e soddisfatta. Quindi le forze l’abbandonarono e non udì più nulla.
 
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